giovedì 14 maggio 2020

TRATTATO SULL’INFERNO



L'INFERNO ESISTE?

Nella Costituzione Lumen gentium, il concilio Vaticano Il ricorda con parole della Scrittura l'alto destino verso il quale siamo incamminati: "Con verità siamo chiamati, e lo siamo, figli di Dio, ma ancora non siamo apparsi con Cristo nella gloria (cf Col 3, 4), nella quale saremo simili a Dio perché lo vedremo qual è. Oltre ad affermare questo destino glorioso, il Concilio non manca di segnalare il grande rischio che corre l'uomo, se usa male della libertà: "Siccome poi non conosciamo né il giorno né l'ora bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati" (cf Mt 25,31-46), né ci si comandi, come ai servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno nelle tenebre esteriori dove "ci sarà pianto e stridore dei denti".

Prima di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo "davanti al tribunale di Cristo, perché ciascuno ritrovi ciò che avrà fatto quando era nel suo corpo sia in bene che in male", e alla fine del mondo "ne usciranno, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna" (Gv 5,29).

Tutti risusciteremo, come insegna il Signore nelle parole riferite da san Giovanni: "chi ha operato il bene a risurrezione di vita; chi ha operato il male, a risurrezione di condanna": alcuni per il cielo e altri per l'inferno. La verità di fede dell'inferno, rivelata varie volte nel Nuovo Testamento, dev'essere accettata alla luce di un'altra verità centrale della nostra fede: il Signore ha manifestato il suo desiderio che "tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità".

Davanti alla realtà dell'inferno e al concetto che l'uomo ha di Dio, spesso sorge la perplessità nel cuore dell'uomo. "Se Dio desidera così" la salvezza dell'uomo, possiamo domandarci con Giovanni Paolo II, "se Dio per questa causa dona suo Figlio..., può l'uomo essere dannato, può essere respinto da Dio? Può Dio, il quale ha tanto amato l'uomo, permettere che costui lo rifiuti così da dover essere condannato a perenni tormenti? E, tuttavia, le parole di Cristo sono univoche. In Matteo egli parla chiaramente di coloro che andranno al supplizio eterno". Come si coniugano queste due verità? Come possiamo affermare la nostra fede in un Dio che è Amore e che desidera salvare, e che è al tempo stesso Giustizia definitiva e non ammette che restino impuniti i crimini degli uomini? Non sono domande nuove: hanno turbato i pensatori nel corso della storia, da Origene, nel III secolo, fino ai nostri giorni.

Domande alle quali si risponde facendo ricorso alla Rivelazione e accettando l'esistenza del mistero: il mistero dell'Amore di Dio e della sua Giustizia, e il mistero del peccato e dell'indurimento del cuore dell'uomo.

Nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro il Signore affronta un argomento che ha preoccupato nei secoli precedenti: come mai a volte all'empio le cose vanno bene in questa vita e al giusto vanno male. Nell'Antico Testamento viene progressivamente rivelata la soluzione al problema: anzitutto viene affermato che qui in terra, alla fine, il Signore fa giustizia. E la risposta che troviamo, per esempio, nel Salmo 36: "Sono stato fanciullo e ora sono vecchio, non ho mai visto il giusto abbandonato, né i suoi figli mendicare il pane... Ho visto l'empio trionfante... Sono passato e più non c'era, l'ho cercato e più non si è trovato". Nel libro di Giobbe, gli amici insistono sul fatto che le sofferenze di Giobbe dipendono dai suoi peccati: soffri?, dunque hai peccato, per questo vieni castigato. Nella seconda parte si fa un passo avanti: un altro personaggio, Elifaz, parla del mistero della provvidenza divina: non possiamo chiedere spiegazioni a Dio, che è troppo grande perché lo possiamo comprendere. E Giobbe, da parte sua, manifesta la sua speranza nell'aldilà, dove si risolve il problema della retribuzione. Nella parabola del ricco epulone, il Signore usa l'espressione "seno di Abramo".

Nell'Antico Testamento era stata data una rivelazione progressiva sulla sorte di coloro che muoiono: in principio si afferma l'esistenza dello Sheol, dove riposano i morti, tanto i giusti quanto gli ingiusti; i profeti stabiliscono come dei gradi nello Sheol: gli empi stanno nella sua parte più profonda. Al tempo della predicazione di Cristo, gli ebrei sapevano dai salmi che il giusto spera da Dio la liberazione dallo Sheol, che non è più un dormitorio comune ma significa l'inferno in senso stretto.

Già dal libro della Sapienza la diversa sorte degli uni e degli altri nell'aldilà era stata posta in maniera sempre più chiara: il destino dell'empio è la morte la permanenza nello Sheol; i giusti hanno la vita eterna in comunione con Dio. Questi stanno nel seno di Abramo, che non è un luogo di tormento, ma di gioia. È importante anche l'affermazione di Daniele: anche l'empio risusciterà. Gli uni risusciteranno "alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna".

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