(Il problema ―dell‘esistenza‖ di Dio in S. Tommaso)
Se il procedimento seguito dalla teologia negativa non cambia direzione passando dalla Somma contro i Gentili alla Somma di teologia, la sua pratica concreta è tuttavia molto differente. Nella prima opera, Tommaso parte dal fatto che Dio è immutabile. Non si tratta di postulato o conclusione d‘ambito filosofico, ma di un dato ricevuto dalla rivelazione. In tre differenti luoghi la Bibbia riprende la stessa affermazione: «Dio non è un uomo da potersi smentire» diceva già il libro dei Numeri (23, 19), al quale fanno eco sia il profeta Malachia (3, 6): «Io sono Dio, non cambio», sia l‘apostolo Giacomo (1, 17): «In lui non vi è alcun cambiamento». Partendo da ciò, Tommaso stabilisce che se è immobile, Dio è anche eterno, e dunque gli è assolutamente impossibile trovarsi in potenza nei riguardi di qualsiasi cosa. Di conseguenza, in lui non vi è nemmeno materia — poiché essa si definisce per il fatto di essere in potenza — e questo ci spinge a scartare da lui ogni composizione. E se non si compone con nient‘altro, occorre allora ritenere per certo che Dio è la sua propria essenza, ch‘egli è il suo essere stesso. Non possiamo seguire i dettagli del procedimento fino alla fine: esso sfocia nell‘affermazione della semplicità divina, da dove riparte all‘esame delle altre perfezioni di Dio. Nella Somma di teologia, l‘autore utilizza l‘ordine inverso e prende la semplicità divina come punto di partenza. Non per questo rinnega però la sua prima ispirazione, ma al contrario l‘approfondisce; per comprenderlo è sufficiente leggere il testo parallelo a quello che abbiamo appena citato: «Conosciuta l‘esistenza di una realtà resta da ricercare il suo modo di essere, per giungere a conoscere ciò che essa è. Ma, poiché non possiamo sapere di Dio che cosa è, ma soltanto ciò che non è, così non possiamo nemmeno considerare come egli è ma piuttosto come non è. Perciò è necessario esaminare prima di tutto come egli non è, in seguito come è conosciuto da noi, e infine come è denominato. Si può dimostrare di Dio come non è, scartando le cose che a lui non convengono, quali sarebbero la composizione, l‘essere in movimento ed altre cose simili. E per questo che ci si interroga innanzitutto sulla sua semplicità, per la quale scartiamo da lui ogni composizione. Ma siccome negli esseri corporali le cose semplici sono imperfette e frammentarie, bisognerà indagare in seguito sulla perfezione di Dio, la sua infinità, la sua immutabilità e la sua unità» 70 . Partendo dalla semplicità divina, Tommaso impernia il suo discorso sulla pienezza d‘essere di Dio e sull‘identità in lui dell‘essenza e dell‘essere: Dio si identifica al suo essere stesso. Ed è questo che fonda la successiva trattazione sugli attributi divini. Ciascuno di essi meriterebbe una lunga considerazione, ma sarà sufficiente sottolineare ciò che emerge più chiaramente del metodo tomasiano. Lungi dal portare l‘uomo ad impossessarsi del mistero divino, dominandolo, questo procedimento suscita in lui una coscienza affinata del mistero che l‘oltrepassa. La teologia negativa è la forma intellettuale del rispetto e dell‘adorazione dinanzi al mistero 71 . E qui che Tommaso appare in una certa misura come un erede autentico della tradizione greca, e lo dimostra fin dall‘inizio della sua carriera, quando incontra per la prima volta in questo contesto i nomi prestigiosi che patrocinano il suo apofatismo 72 . Si tratta di sapere se l‘espressione utilizzata dalla Volgata quando Dio si fa conoscere da Mosè, «Colui che è» (Qui est), significhi veramente «ciò che è» Dio (il suo quid est) o soltanto, come afferma san Giovanni Damasceno, «un certo oceano infinito di sostanza» 73 . Se il Damasceno ha ragione, dice l‘obiettante, dato che l‘infinito non è comprensibile (nel senso di una conoscenza esaustiva), esso non sarà nemmeno «nominabile»; dunque sarà impossibile parlare di Dio, ed egli resterà sconosciuto. Per Tommaso non vi sono dubbi; tra tutti gli altri nomi, «Colui che è» offre vantaggi incontestabii per parlare di Dio, poiché è un nome rivelato; ma ciò non significa che per questo si esaurisca il mistero: «Tutti gli altri nomi esprimono l‘essere determinato e particolare, come ―saggio‖ dice un certo essere; ma il nome ―Colui che è‖ dice l‘essere assoluto e non determinato da qualcosa di aggiunto; ed è per questo che il Damasceno afferma che esso non significa ciò che è Dio, ma «un certo oceano infinito di sostanza, come non determinato‖. E per questo che quando noi procediamo alla conoscenza di Dio per via di negazione, neghiamo di lui innanzitutto le cose corporali e in seguito anche le intellettuali secondo la modalità in cui si trovano nelle creature, come la bontà e la saggezza; e allora non resta nel nostro intelletto che la sua esistenza (quia est) e nient‘altro, e il nostro intelletto viene a trovarsi allora in una specie di confusione. Infine, anche l‘essere, quale si trova nelle creature, è negato di lui, e allora egli resta in una certa tenebra dell‘ignoranza (et tunc remanet in quadam tenebra ignorantiae), ignoranza secondo la quale siamo uniti a Dio in modo ottimale, almeno durante la vita presente; come afferma Dionigi, questa è come una nuvola in cui si dice che Dio abiti» 74 .
Questo testo, che si è detto essere «il più apofatico di tutta l‘opera di san Tommaso» 75 , non è però il solo della sua specie ed è molto importante il fatto che si ritrovano delle annotazioni simili in tutte le epoche dell‘evoluzione intellettuale del Maestro. Dieci anni dopo le Sentenze, la Somma contro i Gentili riprende queste espressioni in maniera ancora più esplicita: «La sostanza separata conosce da se stessa che Dio esiste (quia est), che è la causa di tutto, al di sopra di tutto (eminentem), distinto (remotum) non solo da ciò che è, ma da tutto ciò che può concepire un‘intelligenza creata. Anche noi possiamo ottenere qualcosa di questa conoscenza di Dio: infatti dagli effetti sappiamo che Dio esiste (quia est) e che è la causa degli esseri al di sopra e separato da essi (supereminens et remotus). Questo è il limite della nostra conoscenza di Dio in questa vita, come afferma Dionigi (Teologia mistica I 3): noi siamo uniti a Dio come ad uno sconosciuto. Ciò avviene perché di lui sappiamo «ciò che non è‖ (quid non sit), rimanendoci totalmente ignoto (penitus ignotum) «ciò che è‖. E per questo che, per esprimere l‘ignoranza di questa sublime conoscenza, si dice di Mosè che si avvicinò alla nube oscura in cui Dio era presente (Es 20, 21)» 76 . È in occasione di un parallelo con la conoscenza angelica che Tommaso formula queste precisazioni. Bisogna osservare che senza tentare di eliminare il mistero, egli sottolinea però che non siamo completamente sprovveduti dinanzi ad esso. Questi due orientamenti si ripetono formulati più o meno brevemente a seconda dei testi e sarebbe facile moltiplicarne gli esempi. Senza cercare di essere esaustivi si può almeno osservare che, se mettiamo da parte le opere erudite per verificare in che modo Tommaso si rivolga ai fedeli, riscontriamo che il predicatore non si esprimeva diversamente dal teologo: «Nessuna via è così fruttuosa per la conoscenza di Dio come quella che procede per separazione (per remotionem). Si viene allora a sapere che Dio è perfettamente conosciuto, quando si diventa coscienti che egli è ancora al di là di tutto ciò che può essere pensato di lui. E per questo che si dice di Mosè — il quale fu tanto intimo (familiarissimus) con Dio quanto è possibile esserlo in questa vita — che si avvicinò a Dio nella nuvola dell‘oscurità, cioè che giunse alla conoscenza di Dio apprendendo «ciò che Dio non è‖. E questa via di separazione che indica il nome «santo‖ [il «tre volte santo‖ dei serafini in Is 6, 2]» 77 . Come una litania, questa serie di testi, che non sarebbe difficile prolungare ulteriormente 78 , testimonia in modo impressionante che la modestia iniziale del proposito non è mai persa di vista e che viene ripetuta ogni volta che se ne presenta l‘occasione. Ma nello stesso tempo — e tanto spesso quanto è necessario — il teologo rifiuta di abdicare: Dio gli ha dato l‘intelligenza come il bene più prezioso, ed egli considera che l‘omaggio più alto che gli può rendere consiste precisamente nell‘impiegare le sue forze per scrutare il mistero. Molti studi sono stati consacrati all‘apofatismo di san Tommaso, ma nei suoi riguardi non si può utilizzare questo termine senza operare alcune sfumature che si impongono. Il riferimento costante a Dionigi, che ritorna in questo contesto come una specie di ritornello rituale, esprime indubbiamente la considerevole autorità che questi aveva agli occhi dei medievali. Ma fedele al suo modo abituale — che si tratti di Aristotele o di altri — Tommaso non riprende Dionigi senza modificarlo profondamente. La più evidente di queste modificazioni è stata notata da molto tempo e a giusto titolo. Contrariamente a ciò che trovava nelle traduzioni a sua disposizione, Tommaso non riprende Dionigi, che dice che Dio resta totalmente sconosciuto («omnino» ignotum), ma si limita a dire che noi lo raggiungiamo come sconosciuto («tanquam» ignotum; o ancora «quasi» ignotum) 79 . D‘altronde, mentre Dionigi situava Dio al di là dell‘essere e concludeva alla sua inconoscibilità assoluta, Tommaso situa Dio al di sopra di «questo essere quale si trova nelle creature» 80 , indicando così che non vi è un concetto d‘essere che sarebbe comune a Dio e alle creature. Ma ciò non significa che il nome «Colui che è» non si applichi a Dio in nessun modo 81 . Tommaso non vede Dio soltanto come la causa dell‘essere; egli è molto di più. Se la via della causalità gli permette di esprimere riguardo a Dio qualcosa d‘indispensabile, egli vuole andare ancora più avanti. Ci si rende conto molto bene di ciò osservando il modo in cui egli riprende, prolunga e insieme modifica la triplice via che gli proponeva l‘Areopagita per accedere a Dio 82 . La semplice modificazione dell‘ordine stesso delle tre vie mostra bene che egli non condivide l‘apofatismo assoluto di Dionigi, e che la negazione non sopprime i diritti dell‘affermazione 83 . Come osserva Tommaso stesso a proposito di Maimonide, non è sufficiente dire che Dio è vivente perché non ha l‘essere alla maniera di un corpo inanimato. Parimenti si potrebbe dire benissimo che Dio è un leone, poiché non ha l‘essere alla maniera di un uccello: «Il senso della negazione è esso stesso fondato su una certa affermazione... Così se l‘intelletto umano non potesse conoscere niente di Dio affermativamente, non potrebbe nemmeno negare niente di lui. Poiché se niente di ciò che afferma di Dio si verificasse affermativamente, non avrebbe allora nessuna conoscenza in proposito. E per questo che al seguito di Dionigi, occorre dire che questi nomi [di perfezione] esprimono [realmente] la sostanza divina, seppure in modo incompleto e imperfetto» 84 .
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