Tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico. Con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 200715, Excursus - Strutture dell'essere-cristiano, pp. 248-253.
4. La legge della sovrabbondanza
Nelle affermazioni etiche del Nuovo Testamento c’è una tensione che sembra insormontabile: tra grazia ed éthos, tra un totale senso di inutilità e un altrettanto totale sentirsi sotto pressione, tra una completa passività, tipica di chi riceve tutto gratuitamente perché non è in grado di fare nulla, e contemporaneamente un totale dover-spendersi, sino all’inaudita richiesta: «Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
Se, in questa eccitante polarità, si cerca però un centro unificante, ci si imbatte continuamente – soprattutto nella teologia paolina, ma anche nei primi tre vangeli – nella parola “sovrabbondanza” (perísseuma), nella quale il discorso sulla grazia e quello sulle esigenze risultano intimamente uniti, sino a convergere uno nell’altro.
Al fine di cogliere il principio guida, scegliamo quel passo centrale del discorso della montagna che rappresenta, per così dire, titolo e il contrassegno riassuntivo delle sei grandi antitesi («È stato detto agli antichi…, ma io vi dico...») nelle quali Gesù rielabora la seconda tavola della legge.
Il testo suona: «Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).
Questa affermazione significa innanzitutto che ogni giustizia umana viene reputata insufficiente. Chi potrebbe onestamente gloriarsi di aver accolto realmente e senza riserve, nel profondo della sua anima, il senso dei singoli precetti e di averli adempiuti integralmente in tutta la loro profondità, o addirittura di averli tradotti in pratica in maniera “sovrabbondante”? Nella chiesa esiste sì uno “stato di perfezione”, nel quale ci si impegna ad andar oltre ciò che viene comandato, a una sovrabbondanza. Ma coloro che vi appartengono saranno gli ultimi a [248] negare di trovarsi continuamente a fare i primi passi e colmi di insufficienze. Lo “stato di perfezione' costituisce in realtà la drammatica conferma della perenne imperfezione dell’uomo.
Chi non trova sufficiente questo accenno generico può leggere anche solo i seguenti versetti del discorso della montagna (Mt 5, 21-48) per sentirsi in dovere di fare uno sconcertante esame di coscienza. In queste affermazioni è evidente che cosa significhi prendere davvero sul serio i precetti a prima vista apparentemente così semplici della seconda tavola del decalogo, fra i quali ne spieghiamo qui tre: «Non uccidere. Non commettere adulterio. Non spergiurare».
A prima vista, sembra quanto mai facile sentirsi qui a posto. In fin dei conti, non si è ammazzato nessuno, non si è commesso adulterio, non si ha alcun spergiuro da rimproverarsi. Ma quando Gesù va a fondo nel chiarire queste esigenze, diventa evidente quale parte abbia l’uomo, abbandonandosi all’ira, all’odio, al rancore, all’invidia e alla cupidigia, nei processi citati. Appare chiaro fino a qual segno l’uomo, nella sua apparente giustizia, si trovi irretito in ciò che costituisce l’ingiustizia del mondo.
Quando si leggano con serietà le parole del discorso della montagna, si fa esperienza di ciò che succede a una persona che passa dall’apologetica di un atteggiamento fazioso alla realtà. Il netto contrasto tra bianco e nero, nel quale si è abituati a inquadrare le persone, si tramuta nel grigiore di una ambiguità generale. Emerge con chiarezza come, nel mondo degli uomini, non ci sia alcun bianco-nero e come, nonostante l’ampia scala delle sfumature, tutti si trovino, in un modo o nell’altro, nell’ambiguità.
Utilizzando un’altra immagine, si potrebbe dire: se le differenze morali degli uomini si possono totalmente trovare nell’ambito “macroscopico”, tuttavia un'osservazione quasi micro-fisica, micro-morale, offre anche qui un quadro differenziato, nel quale le differenze incominciano a divenire problematiche: in ogni caso, non si potrà più parlare di una sovrabbondanza di giustizia.
Così, nessun uomo, per quanto si sforzi, potrebbe entrare nel [249] regno dei cieli, vale a dire nella sfera dell’autentica, piena giustizia. Il regno dei cieli dovrebbe restare una vuota utopia. E in effetti, dovrà rimanere una vuota utopia, sintanto che esso dipenderà unicamente dalla buona volontà degli uomini.
Quante volte si sente dire: basterebbe un briciolo di buona volontà, perché tutto diventi bello e buono nel mondo. Ed è vero, il briciolo di buona volontà basterebbe realmente, ma la tragedia dell’umanità sta proprio nel fatto che essa non ne ha la forza. Ha quindi ragione A. Camus di scorgere il simbolo dell’umanità nella figura di Sisifo, che si ostina a rotolare il masso verso la vetta del monte, per poi doverlo vedere franare sempre di nuovo in basso?
Per quanto riguarda il potere umano, la Bibbia è altrettanto disincantata quanto Camus; essa però non si ferma al suo scetticismo. Per essa il limite della giustizia umana, delle possibilità umane in genere, si fa espressione del fatto che l’uomo è rinviato al dono indubbio dell’amore, che gli si rivela gratuitamente e apre così lui stesso, e senza il quale egli, pur con tutta la sua “giustizia”, resterebbe chiuso e ingiusto. Unicamente l’uomo che accetta questo dono può divenire se stesso.
In tal modo, però, la riflessione sulla “giustizia” dell’uomo diventa al contempo rimando alla giustizia di Dio, la cui sovrabbondanza ha nome Gesù Cristo. Egli è la giustizia di Dio che supera il dover-essere, che non calcola, ma è veramente sovrabbondante, è il “tuttavia” del suo amore più grande, grazie al quale egli sopravanza infinitamente il fallimento dell’uomo.
Ciononostante, però, si fraintenderebbe completamente tutto, qualora si volesse dedurne una svalutazione dell’uomo e dire: allora tutto è assolutamente indifferente e ogni ricerca della giustizia e della bontà è priva di valore di fronte a Dio. Nient'affatto, dobbiamo invece rispondere: malgrado tutto e proprio in base alle considerazioni fatte, c’è e rimane l’esortazione alla sovrabbondanza, anche se non si riesce a realizzare la piena giustizia.
Ma che cosa significa questo? Non è forse una contraddizione? Per dirla in breve, ciò significa che non è ancora cristia[250]no colui che si limita a calcolare quanto sia tenuto a fare per potersi dire a posto e considerarsi, a forza di trucchi della casistica, persona dai costumi irreprensibili.
E anche chi sta a calcolare dove termini il dovere e come si possa procurare ulteriori meriti, mediante un opus supererogatorium (opera in più), è un fariseo, non un cristiano. Essere cristiani non significa adempiere un determinato dovere e magari ostentare una particolare perfezione, persino oltre la misura prestabilita dai propri obblighi.
Cristiano è piuttosto colui che ha la consapevolezza di vivere, dovunque e comunque, innanzitutto dei doni che ha ricevuto; colui che sa che la vera giustizia può stare unicamente nell’essere a sua volta un donatore, simile al mendicante che, grato per quanto ha ricevuto, ridistribuisce con generosità agli altri.
Colui che si limita a esser giusto, conteggiando col bilancino, colui che pensa di procurarsi da solo una veste irreprensibile e di poter così costruirsi tutto da sé, è un ingiusto. La giustizia umana può trovare realizzazione unicamente nell’abbandonare le proprie pretese e nella generosità di fronte agli uomini e a Dio. È la giustizia del «perdona a noi, come noi abbiamo perdonato». Questa preghiera si dimostra la vera e propria formula della giustizia umana cristianamente intesa: essa consiste nel perdonare a propria volta, per la semplice ragione che si vive del perdono ricevuto [nota 45].
Il tema della sovrabbondanza, considerato alla luce del Nuovo Testamento, conduce però anche a scoprire un’altra traccia, seguendo la quale il suo significato diviene perfettamente chiaro. Troviamo questa parola pure nel contesto del miracolo della moltiplicazione dei pani, ove si parla di una “sovrabbondanza”, di sette ceste di pani avanzati (Mc 8,8 e par.). È nelle intenzioni centrali del racconto della moltiplicazione dei pani richiamare [251] l’attenzione sull’idea e sulla realtà del sovrabbondante, del più-del-necessario. Qui affiora subito alla mente il ricordo di un miracolo affine, riportatoci dalla tradizione giovannea: la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (Gv 2,1-11). Il termine sovrabbondanza non vi compare, ma certamente la sostanza: stando ai dati del vangelo, il vino miracoloso raggiunge la misura, per una festa privata davvero inusuale, di 480-700 litri!
Ambedue i racconti hanno per di più a che fare, nell’intenzione degli evangelisti, con la forma centrale: del culto cristiano, l’eucaristia. Ce la presentano come la sovrabbondanza divina, che supera infinitamente ogni bisogno e ogni pur giusta aspirazione.
Ambedue i racconti, però, hanno in questo modo, grazie al loro riferimento eucaristico, a che fare con Cristo stesso e ci riportano in definitiva a lui stesso: Cristo è l’infinita prodigalità di Dio. E ambedue rimandano, come abbiamo riscontrato a proposito del principio del “per', alla legge strutturale della creazione, in forza della quale la vita dissipa milioni di germi embrionali per salvare un vivente; in base alla quale un intero universo viene sprecato allo scopo di preparare, in un punto, un posto allo spirito, all’uomo.
La sovrabbondanza è l’impronta di Dio nella sua creazione; sì, giacché «Dio non pone alcuna misura ai suoi doni», come dicono i Padri. La sovrabbondanza è però, al contempo, la vera base e la forma della storia della salvezza, la quale, in ultima analisi, non è altro che il processo, davvero tale da togliere il respiro, per cui Dio, con un atto d’indicibile autoprodigalità, non solo ha profuso un intero universo, ma addirittura ha dato se stesso per condurre alla salvezza quel granello di polvere che è l’uomo.
Sicché – ribadiamolo – “sovrabbondanza” è l'autentica definizione della storia della salvezza. L’intelletto del gretto calcolatore troverà per forza eternamente assurdo che per l’uomo Dio stesso si debba sprecare. Solo chi ama è in grado di comprendere la follia di un amore per il quale lo spreco è legge, la sovrabbondanza è l’unica misura sufficiente. Or[252]bene, se è vero che la creazione vive di sovrabbondanza, che l’uomo è quell’essere per il quale il sovrabbondante è il necessario, come potrebbe meravigliarci il fatto che la Rivelazione sia il sovrabbondante, e proprio così sia il necessario, il divino, l’Amore in cui si compie il senso dell’universo?
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