di
Francesco Lamendola
Abbiamo la fortuna di vivere in un luogo semplicemente incantato, ai piedi delle montagne, in una zona di boschi e colline che la fiumana del progresso, come la chiamava Verga, ha lasciato miracolosamente in disparte. In cima a una di queste colline, isolata, col campanile svettante contro lo sfondo dei monti coperti di neve, antica di secoli e secoli (esisteva già quando la Divina Commedia era giovane) sorge una chiesetta dedicata a Santa Lucia, ed è tradizione che il giorno della festa a lei dedicata, il 13 dicembre, vi si dica la santa Messa, mentre per quasi tutto il resto dell’anno è chiusa e inaccessibile. Fedeli a quella tradizione, anche noi ci siamo avviati lungo la strada tortuosa che si arrampica fra boschi e vigneti, poi s’interna nelle pieghe in mezzo ai colli e attraversa un paio di minuscole borgate, dove il tempo pare essersi fermato, per recarci alla Messa e ricevere la benedizione per intercessione della Santa. Purtroppo, fin dal portone si respirava il clima allucinatorio di quest’anno, dominato dal terrore della supposta pandemia: una signora stava di vedetta all’ingresso e assegnava i posti, in modo che non più di tre persone sedessero allo stesso banco. Al posto dell’acqua santa, nella pila di pietra c’era l’immancabile liquido igienizzante, e i presenti vi facevano ricorso con la stessa devozione con la quale, un tempo che pare ormai lontano di secoli, immergevano le dota nell’acqua benedetta e si facevano il segno della croce. E tutti con la museruola regolamentare, naturalmente; e tutti che la indossavano con la massima precisione e disciplina, coprendo adeguatamente non solo la bocca, ma anche il naso, non fosse mai che un sospiro o - Dio non voglia, ma questo è tropo sconvolgente anche solo da immaginare – uno starnuto o un colpo di tosse, trovassero il varco per giungere all’esterno della doverosa barriera protettiva, e potesse infettare tutti gli altri.
Una magnifica chiesetta della pedemontana veneta
Ad ogni modo, come la campana ha dato l’annuncio, il sacerdote, grazie al Cielo senza mascherina, è uscito dalla sacrestia e ha iniziato la celebrazione della santa Messa. La chiesetta è così antica e così disadorna che nessuno ha pensato, nell’anno di grazia 1969, di mettere nel presbiterio quel caratteristico arredo postconciliare che il critico d’arte Vittorio Sgarbi una volta ha definito, senza perifrasi ma assai efficacemente, la tavola da cesso prescritta dalla cosiddetta riforma liturgica: per cui il sacerdote, bon gré, mal gré, ha dovuto celebrare servendosi del solo altare esistente, quello antico, addossato alla parete di fondo e abbellito, fra l’altro, da una pregevole pala di un pittore tedesco del Settecento; sicché per un poco ci siamo goduti, è il caso di dirlo nel pieno significato della parola, l’illusione che la santa Messa fosse quella di allora, quella di sempre, quella non ancora contaminata dallo spirito massonico e modernista dell’arcivescovo Bugnini e dell’ecumenico e dialogante Paolo VI. Le due letture iniziali della Sacra Scrittura, a parte la museruola ostentata dai lettori, uno dei quali ha ritenuto cosa buona e giusta affrettarsi a disinfettare le mani con l’amuchina dopo aver sfiorato il Messale, forse contaminato dall’orribile morbo, si sono svolte senza incidenti; e l’omelia del sorridente sacerdote, non giovane di età, ma giovanile nel piglio e nell’enfasi con cui parlava, sembrava essere partita sul binario giusto. Ma ecco che, dopo neanche un paio di minti, è arrivata, del tutto gratuita e ingiustificata dal contesto, la prima sviolinata al leader maximo: che bellezza, a sentire quel sacerdote, poter dire care sorelle e cari fratelli, mentre prima si diceva solo fratelli (e qui un gesto delle spalle, sottolineato da una smorfia della bocca, come a dire: che razza di orrendi maschilisti erano fino all’altro giorno e da ben duemila anni, i cattolici pre-bergogliani!); che grande novità, che inclusione, e che colpo di genio da parte di papa Francesco! L’intento adulatorio era così smaccato, e al tempo stesso così banalmente grossolano, che avremmo anche potuto sorriderne e non prestarvi attenzione più di tanto; ma quel bravo prete, evidentemente, si era preparato a lungo la sua arringa e una volta preso l’abbrivio, non intendeva sprecare la ghiotta occasione di cantare le lodi del suo papa così amato, così moderno, così inclusivo e misericordioso. E allora ecco che c’informa, parlando di san Giovanni Battista, soggetto della seconda lettura, di aver trovato nel recente articolo di papa Francesco l’espressione vivere nel cono d’ombra, riferita al precursore di Gesù Cristo, per indicare la modestia, la discrezione, l’atteggiamento schivo del Battista nei confronti del Messia. Pensate, diceva estasiato il celebrante, con la voce che gli tremava in gola per l’entusiasmo quasi irrefrenabile, pensate com’è incisiva questa espressione, vivere nel cono d’ombra; non mettersi al centro, non rivendicare un ruolo speciale, ma porsi interamente al servizio di Qualcuno che è più grande di noi, di Qualcuno al quale non siamo degni neppure di allacciare i calzari! Eh già, abbiamo subito pensato: proprio così; e non c’è dubbio che il signor Bergoglio, il quale non si vergogna a farsi adorare come se fosse lui il Signore Iddio, che non s’inginocchia davanti al Santissimo e che permette che in alcune chiese vegano poste delle statue a lui dedicate, è proprio la sintesi vivente di questa filosofia della modestia, della discrezione e del nascondimento!
Riti "Bergogliani"? Nessun dialogo con i seguaci della Pachamama e Greta, a noi basta Gesù Cristo e l’aiuto della sua Madre Santissima che non è una meticcia, né una profuga!
E tanto avrebbe potuto anche bastare; ma no, non bastava ancora: non era sufficiente a contenere tutto l’amore, tutto l’entusiasmo, tutta la fervida ammirazione che quel pio sacerdote provava per il suo papa, anzi per il nostro papa, come recita, assai modestamente, il titolo di una rivista nata apposta per propagandarne la luce carismatica, sempre nella piena fedeltà all’intuizione di Bergoglio stesso, che il cristiano deve vivere nell’ombra, che è solo un operaio della vigna, anzi è solo un medico o un infermiere di quell’ospedale da campo che la chiesa, secondo il jefe maximo argentino, deve diventare, per poter medicare le varie e numerose ferite che la vita, con la sua complessità e nella sua concretezza sono espressioni tipiche di Amoris laetitia), e dunque lontano dalle fisime dottrinali e morali di prima del Concilio, infligge a tutti gli uomini, vale a dire a tutti i fratelli, con o senza la cristiana buona volontà (cosa logica del resto, dal momento che Dio non è cattolico, e neppure cristiano). Ormai in procinto di sciogliere l’assemblea dei fedeli, naturalmente dopo essersi attenuto col maggiore scrupolo alle ultimissime novità liturgiche del Messale, e non abbandonarci alla tentazione compresa, non si è peritato di intonare un vero e proprio panegirico, tanto gratuito quanto in contraddizione con il tema della predica, del papa più aperto, più inclusivo, più sollecito dei poveri (forse non ha visto le foto del suo felice simposio con il gruppo dei superoligarchi affamatori dell’umanità capitanato da Lynn Forester de Rotschild…) che mai abbia occupato la cattedra di san Pietro. A quel punto noi, che già avevamo rinunciato a comunicarci con la santa Eucarestia per non incorrere in peccato mortale, non abbiamo potuto fare altro che dirigerci velocemente all’uscita, in cerca di un boccata d’aria pura, materialmente e spiritualmente. Da tempo abbiamo rinunciato a discutere, come una volta facevamo, con simili sacerdoti: a che scopo, poi? È evidente che quell’uomo, per come parlava e si esprimeva, era dotato di una certa cultura e di una certa intelligenza: dunque, non poteva non sapere che le sviolinate in lode di Bergoglio, oltre ad essere del tutto estranee al tema dell’omelia che avrebbe dovuto tenere, anzi in piena contraddizione con esso, erano quanto di più divisivo avrebbe potuto scegliere, se avesse deciso di farlo apposta. Per quanto innamorato di Bergoglio, per quanto entusiasta dei suoi modi, della sua pastorale, della sua teologia (ma nessuno gli ha insegnato, in seminario, che non esiste una teologia di questo o di quel papa, e che un papa può anche non essere affatto un teologo, e neppure un santo, basta che custodisca fedelmente e ineccepibilmente la dottrina di sempre?), egli doveva, egli deve sapere che non tutti i cattolici condividono un simile giudizio; che ve ne sono di quelli che soffrono in silenzio, da sette anni, sentendosi abbandonati e traditi proprio dal pastore del gregge; e che anche nei piani alti della gerarchia – Burke, Schneider, Viganò soprattutto, per non parlare del defunto Caffarra – c’è parecchia maretta, e aria di fronda, se non addirittura di scisma. Pertanto, che cosa può e deve fare un buon sacerdote, in una situazione potenzialmente esplosiva, con la chiesa cattolica sempre più lacerata al proprio interno e sempre più sotto attacco da parte della massoneria internazionale, se non fondare la propria azione pastorale sul solo punto che non è e non sarà mai divisivo, ma unitivo, e cioè la Redenzione che viene da Gesù Cristo, il Verbo incarnato, il Figlio di Dio e Salvatore dell’umanità peccatrice? Parlando di Gesù Cristo, annunciando il suo Vangelo, additando la sua Redenzione, un sacerdote non sbaglia mai: anzi è per questo che è stato ordinato sacerdote, e non per abbandonarsi a tifoserie su questo o quel papa, e naturalmente anche alle inevitabili critiche nei confronti di quei papi che non gli vanno a genio (chissà cosa diceva di Benedetto VI, se pure ne parlava, quel bravo sacerdote elogiatore sperticato di Bergoglio). Ora, a parte il fatto che è cosa di pessimo gusto parlare quasi più del papa che del Nostro Signore, ci sembra che tessere il panegirico di un papa che intronizza la Pachamama, che invoca il diritto degli omosessuali a farsi una famiglia, che bestemmia contro la Santissima Trinità e che offende la Vergine Santissima,sia la stessa cosa che andare con le dita negli occhi a tutti quei cattolici che non si fanno incantare dalle belle frasi buoniste e dai gesti plateali e buffoneschi di quel signore, e che da sette anni vivono nell’amarezza e nel cordoglio interiore, aspettando che Dio li liberi infine dalla sciagura di un papa eretico, blasfemo e direttamente infeudato alla massoneria e al grande potere finanziario globalista. Perciò, se un sacerdote si comporta a quel modo, ciò significa che non gliene frega niente della sua vera missione, la guida e possibilmente la salvezza delle anime; che il pensiero di riunire le pecorelle del gregge di Cristo e d’impedire che si disperdano qua e là, col pericolo di cadere nelle fauci dei lupi, non lo sfiora neppure; e molto probabilmente che è ben lieto se quelli che non ci stanno, se gl’irriducibili “tradizionalisti “ si decidono ad andarsene e a togliere il disturbo, così lui e quelli come lui non avranno alcun bisogno di fondare una nuova chiesa, perché ne hanno già una bella e pronta a loro disposizione: la nostra, quella che è stata fondata da Gesù e tramandata per quasi duemila anni dai successori di san Pietro, nessuno dei quali pensava, parlava e agiva come Bergoglio.
Il signor Bergoglio non si vergogna a farsi adorare come se fosse lui il Signore Iddio, non s’inginocchia davanti al Santissimo e permette che in alcune chiese vegano poste delle statue a lui dedicate!
La cosa probabilmente più triste, dal punto di vista pastorale ma anche dal punto di vista umano, è questa tetragona, rocciosa arroganza dei preti modernisti che non si curano affatto del dolore che provocano ai fedeli, o a una parte di essi; che sanno benissimo di infliggere loro una sofferenza ogni volta che parlano e agiscono in un certo modo, e non solo non si trattengono dal farlo, ma intensificano i loro atteggiamenti e i loro discorsi ultraprogressisti, come se la sola cosa importante, per loro, fosse rendere pubblica la loro posizione, ovviamente ponendo al centro se stessi, il proprio ego debordante (altro che vivere nel cono d’ombra!), e il servizio alle anime fosse un di più, un optional, se non addirittura un residuo del passato, un vecchio arnese di una chiesa ormai del tutto superata e meritevole di essere dimenticata. Povertà umana, ignoranza della ragion d’essere della missione sacerdotale: questo sono i nuovi preti usciti dai seminari dopo il Concilio; e quale abisso li separa, umanamente e spiritualmente, dai loro venerandi predecessori. In un paese a pochi chilometro dal nostro c’è una comunità parrocchiale spaccata metà ormai da una quindicina d’anni: da quando è arrivato il nuovo parroco, imbevuto da cima a fondo di spirito modernista e ultraprogressista; uno che gode a usare l’ambone, durante l’omelia, per parlare non di Dio e della vita eterna, della grazia e del peccato, del cielo e dell’inferno, ma sempre e solo di cose materiali, aggravando ulteriormente la pesantezza dei suoi discorsi con aperte derisioni e sbeffeggiamenti delle pie usanze, della devozione delle persone semplici, ad esempio dei pellegrinaggi mariani o semplicemente del culto che le buone donne della parrocchia riservano alla Vergine Santissima. Noi stessi ci siamo confrontati con lui, a suo tempo, e abbiamo segnalato la cosa al vescovo; ma ormai da un pezzo non ci crediamo più, abbiamo rinunciato, e lo stesso vale per il vescovo: da quando siamo giunti alla conclusione che costoro sono irrecuperabili, perché a loro non importa assolutamente nulla del bene delle anime, ma basta unicamente mettersi sotto i riflettori, dire io, io, io, sbandierare il loro amore per i migranti, il loro spirito di accoglienza, e scagliarsi con amare invettive contro l’egoismo e il razzismo dei cattivi cattolici italiani che non capiscono, non spalancano le porte, non aprono il portafoglio. E mai che li si senta spendere una parola buona, una parola di consolazione per gli imprenditori che si suicidano, per i lavoratori rimasti senza lavoro, per le famiglie italiane ridotte a vivere nella carità dei parenti; mai, mai, mai, che si ricordino che sono poveri anche costoro, anzi che sono ancora più poveri, perché il senso innato della dignità impedisce loro di mendicare, di chiedere la carità, come in altre culture è invece perfettamente normale ed è considerato il solo modo possibile, oltre al furto e alle rapine, per mantenere se stessi e le proprie famiglie. No, non più parole con costoro; e neppure con i cattolici che non capiscono e che si rifiutano di vedere e di trarre le inevitabili conclusioni. Nessun dialogo con i seguaci della Pachamama e con i devoti di Greta Thunberg. A noi basta Gesù Cristo, e l’aiuto della sua Madre Santissima. La quale non è una meticcia, né una profuga, né una donna qualsiasi. No: niente affatto.
Del 15 Dicembre 2020
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