Il topo!
Il viaggio dei quattro deportati fu un vero disastro! Immaginiamo le strade di quei tempi e la carrozza traballante, che, tra Roma e Firenze e Firenze Bologna, dovette valicare l'Appennino, prima di scendere nella vasta pianura che conduce a Piacenza, prima tappa di quel penoso viaggio.
Gaspare, come tutti i romani di quel tempo, era attaccatissimo alla sua bella Roma, dalla quale non era solito metter fuori il naso, tranne che per il catechismo in qualche paesello dei dintorni e le rarissime gite domenicali nei vicini Castelli.
A Piacenza, anche se fin d'allora ricca di palazzi e di chiese bellissime, che testimoniavano la fede di quel popolo e la munificenza dei Duchi, il giovane sacerdote si sentì subito oppresso dalla nostalgia della maestosa Cupola di S. Pietro, delle stupende Basiliche e degli antichi monumenti.
Giunsero a notte piena il 15 luglio. La città era immersa nel sonno e nel buio; l'aria afosa ed umida, per le acque del Po e del Trebbia, penetrava nelle ossa. I prigionieri eran ridotti «come quattro cenci» e «Gaspare si sentiva proprio male e si reggeva appena». Mentre numerosissimi sacerdoti e prelati, che, come loro avevano rifiutato con coraggio il giuramento, erano stati rinchiusi nelle Prigioni Correzionali, dette di S. Sepolcro, essi vennero fatti scendere ed abbandonati in una piazzetta con 1' obbligo di non lasciare mai la città e costretti a trovarsi un alloggio a proprie spese. All'angolo della piazza videro una lanterna e la scritta Locanda; bussarono e chiesero di potervi dormire.
Furono accompagnati in due stanze sudicissime, con i pagliericci stesi sul nudo pavimento, senza neppure un lume. Insieme a Gaspare, con gioia di entrambi1 dormiva l'Albertini che, maggiore di lui di vent'anni, lo prese sotto la sua paterna protezione.
Gaspare non riusciva a prender sonno. Tanti ricordi, lieti e dolorosi, dall' infanzia al momento del distacco, affioravano nella sua mente. E poi la mamma... già, la mamma cara, premurosa, affettuosa. Cosa stava facendo a quell' ora? Certamente lo pensava e neppure lei, in lacrime, riusciva a prender sonno.
Ad interrompere questi suoi pensieri gli giunsero strani rumori gutturali e l'agitarsi improvviso dèll'Albertini. Gaspare saltò dal pagliericcio e, a tastoni, gli andò vicino. «D. Francesco, cos'ha? Si sente male? Parli...» Preoccupato gridò forte e chiese aiuto. Il «cameriere», vecchio cadente e fiemmatico, che dormiva in una stanza del medesimo piano, irritato per l'insolita chiamata, brontolò: «Adesso, adesso!».
Ma cosa stava succedendo al povero Albertini? Dormendo s'era sentito mancare il fiato. Qualcosa di viscido gli era penetrato nella bocca e la graffiava, non potendo né penetrare oltre, né uscirne... Il poveretto si sentiva soffocare, rantolava ormai. Finalmente riuscì a tirar fuori un grosso topo e lo sbatté con violenza contro la parete. Dopo una mezz'oretta giunse il vecchio e, saputo di che si trattava, disse arrabbiandosi: «E per così poco mi avete disturbato a quest'ora! Che roba! Che roba!».
Gaspare, sensibile com'era anche nel fisico, ne ritrasse tale ribrezzo che, fin quando ebbe vita, provò un orrore indicibile per i topi.
I quattro sacerdoti erano, per il momento, solo degli esiliati e non dei detenuti. All' alba si recarono alla parrocchiale di S. Matteo e chiesero ospitalità a pagamento. Il parroco li accolse con molto rispetto, premura e venerazione a motivo della loro condanna.
Le prime settimane passarono tremendamente uguali: isolamento, noia, tristezza cupa, monotonia in una città umida e piatta, che fece scrivere a Gaspare: «Piacenza! No! Dovrebbe, piuttosto, chiamarsi Dispiacenza!».
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