martedì 29 settembre 2020

FUGGITA DA SATANA



 MICHELA



La mia lotta per scappare dall'Inferno


La consacrazione nella setta satanica

Un mese dopo la morte di Luca ho preso servizio in una grande azienda di ristorazione, per la quale dovevo occuparmi del coordinamento di una mensa in una cittadina del Centro Italia. Professionalmente si trattava di una sfida molto impegnativa, anche perché io avevo un'esperienza molto pratica, costruita tutta sul campo, senza aver fatto particolari studi. In questa struttura il mio compito era molto ampio: decidevo i menu, gestivo gli orari del personale, curavo i rapporti esterni. Sentivo però la necessità di acquisire anche una preparazione teorica, in modo da poter avanzare ulteriormente nella carriera.

Nel capoluogo di provincia, distante pochi chilometri, avevo scoperto un istituto alberghiero dove c'era l'indirizzo di specializzazione in cucina internazionale. Mi affascinava poter approfondire materie che avrebbero certamente incrementato le mie competenze e così, dopo aver superato un esame che certificava la mia idoneità, mi iscrissi direttamente all'ultimo anno. Dopo poche settimane di corso, un cuoco-professore si rese conto delle mie capacità e mi propose di affiancarlo come assistente. Così diventai amica di diversi insegnanti della scuola, e in particolare di una che aveva soltanto pochi anni più di me.

Entrando in confidenza, le raccontai che stavo attraversando un periodo un po' faticoso. Lei confermò che effettivamente mi aveva visto un po' tesa e che, se lo avessi voluto, mi avrebbe fatto conoscere una tecnica di rilassamento da lei stessa praticata. Si trattava del reiki, una terapia "alternativa" di origine orientale che promette di ridurre lo stress e di incrementare il livello di benessere fisico- mentale. Numerosi italiani hanno cominciato a praticarla in India, presso Vashram del "santone" Osho Rajneesh, e l'hanno poi esportata da noi. Inoltre alcuni, in Occidente, hanno attuato integrazioni con altre tecniche salutistiche e con pratiche della dottrina New Age.

Una sera accettai e andammo insieme in un appartamento dove sulle pareti erano appese immagini di angeli e disegni orientaleggianti. C'era un'atmosfera di tranquillità, con una musica soffusa e un leggero profumo di incenso che si spandeva per le stanze. In un saloncino vidi una ragazza distesa per terra e un giovane che le poneva con dolcezza le mani su diverse parti delcorpo.

La mia accompagnatrice cominciò a spiegarmi che il reiki aveva a che fare con le forze positive e negative che esistono nel mondo. Con l'aiuto reciproco, poiché nella stessa seduta ciascuno poneva le mani su qualcuno e successivamente le riceveva dal medesimo, venivano allontanate da sé le energie negative e venivano                    immesse      al          loro     posto        quelle           positive.            Mi               sottoposi  a   questo trattamento e alla fine della serata mi fu chiesta l' "offerta" di cinquantamilalire. Dopo una settimana lei mi invitò nuovamente e ci torno, ma quella sera fu diverso. Eravamo otto persone e cominciammo praticando a coppie l'imposizione delle mani. Poi, sul ritmo della musica New Age, ci dissero di spogliarci e di continuare a                 ballare, per favorire l'uscita dal corpo     di ogni negatività. Ci sentivamo tutti in uno stato di trance e fu naturale concludere con una piacevole ammucchiata. Altre cinquantamila lire di esborso, però questa volta mi diedero una pietra azzurrina, spiegandomi che dovevo tenerla sempre con me, perché era capace di catalizzare l'energia positiva.

La settimana successiva  ricevetti ancora  la proposta, ma feci un  po' di resistenza, perché non mi ero sentita a mio agio durante quell'esperienza. Ci andai comunque. Però ero agitata mentre la mia collega mi poneva addosso le mani. Avevo anche una strana sensazione di freddo. «Sai, con il reiki si vanno a toccare le ferite del passato» mi disse «e magari il tuo corpo reagisce così proprio perché in te ci sono dei problemi più profondi. Io ho una amica fidata che fa la psicologa. Potrebbe valere la pena di farti una chiacchierata con lei.» E mi diede il numero di telefono.


Nel vortice della psicoterapia

• lunedì seguente chiamai e mi rispose una voce dolcissima, che trasmetteva una calma indicibile. Le chiesi un appuntamento e me lo fissò per le tre di pomeriggio del mercoledì seguente. Entrai in un palazzo lussuosissimo, in una delle vie principali della città. Sul citofono non c'era alcun nome, soltanto il numero dell'interno che lei mi aveva indicato. Ho preso l'ascensore e poi ha aperto direttamente lei: una donna, intrigante e tenebrosa, che mi accolse con grande amabilità. Nel suo studio, illuminato in maniera molto soft, c'erano soltanto due poltrone e un divano sul quale ci si poteva stendere.

Per il primo mese abbiamo avuto un incontro ogni mercoledì, guardandoci in faccia, sedute sulle poltrone. Durava esattamente cinquanta minuti e, allo scoccare del tempo, lei mi diceva: «È finito» e mi dava appuntamento per la volta successiva. Parlavo quasi sempre io: le raccontavo che cosa avevo fatto durante la settimana, quali difficoltà avevo avuto, facevo dei cenni riguardo al mio passato. Lei, molto di rado, mi chiedeva di approfondire qualcosa, o di spiegarle meglio un passaggio del mio racconto. La sua voce non cambiava mai di tono, era sempre pacata e ferma: e questo mi dava tanta sicurezza.

Alla fine del quarto incontro mi disse che tendevo a scappare e non mi mostravo disponibile a scendere in profondità: «Per comprendere il senso di tante ferite,

anche inconsce, che non ci ricordiamo più, è importante raggiungere la piena consapevolezza del passato. Pensaci, ma forse è giunto il momento in cui tu ti prenda davvero cura di te stessa. Credo sia opportuna una terapia più mirata e continuativa. Se deciderai in tal senso, sarà anche il caso di cambiare posto di lavoro, in modo da avere tempo per le sedute qui e per gli esercizi che ti farò fare per conto tuo».

Con questo discorsetto semplice semplice, mi lanciò il messaggio che, se non fossi andata a fondo nella terapia, sarei stata spacciata, perché avevo un mare di problemi. Io le dissi della mia difficoltà ad accettare una terapia psicanalitica, a causa degli strascichi del precedente intervento dello psichiatra. E poi fui molto franca nel dirle che, senza il mio lavoro, non avrei avuto di che pagarla (anche qui, ogni volta se ne andavano cinquantamila lire). Lei mi tranquillizzò, spiegandomi che aveva molte conoscenze e mi avrebbe trovato un altro posto ancor più soddisfacente di quello che avevo.

Ci pensai per una settimana e alla fine decisi di accettare la sua proposta, perché con lei stavo bene e sentivo di ricevere la calma di cui avevo bisogno. All'inizio della seduta glielo comunicai e lei mi stupì dicendomi che già si era data da fare e mi aveva trovato un posto da chef in un ristorante di alto livello, nel quale non avrei avuto problemi a gestire i miei orari. A partire da questo quinto incontro, la Dottoressa cambiò metodo e mi disse di stendermi sul divano, mentre lei si sedette alle mie spalle. Io mostrai un certo disagio a parlarle senza vederla in faccia, ma lei mi invitò ad andare avanti: «Di' quello che ti senti di raccontarmi, e se non ti viene niente va bene lo stesso».

Alla fine del pomeriggio mi recai dal titolare del ristorante ed effettivamente mi resi conto che mi offriva un ottimo stipendio e la massima disponibilità negli orari. Presi servizio pochi giorni dopo, una volta chiuso il rapporto con l'altra azienda. In cucina eravamo tre chef, più alcuni aiutanti, e a me fu affidata la gestione degli antipasti. La domenica e il lunedì il locale era chiuso (non casualmente, come scoprirò in seguito) e, pur lavorando molto nell'arco della giornata, riuscivo a destreggiarmi per rispettare gli impegni presi con la Dottoressa. In effetti, potevo fare quello che volevo: il principale sgridava tutti, mentre io ero trattata con i guanti di velluto. Dalla volta successiva ho cominciato a fare terapia con la Dottoressa ogni lunedì e venerdì. Mi sentivo più tranquilla.

Cominciavo sempre parlando del lavoro e di ciò che in generale provavo. Lei poi mi stimolava, per esempio interrompendomi all'improvviso: «Che cosa ti viene da pensare in questo preciso momento?».

Dopo qualche altra seduta ha cominciato a calcare sulle questioni sessuali. Mi ha chiesto se avevo avuto rapporti e le ho raccontato delle mie varie storie e di quello che mi era accaduto con Luca. Un suo preciso interesse era relativo al piacere sessuale: «In che modo lo hai provato? Il piacere è una cosa bella!».

Spingeva molto anche sulle relazioni omosessuali, riguardo alle quali le dicevo che non mi sentivo portata. E lei reagiva: «Ma chi te l'ha detto? Dentro di noi c'è una parte maschile e una femminile. D'accordo che noi donne dobbiamo valorizzare la nostra parte femminile, ma anche non tarpare quella maschile è molto importante».


Si comincia con l'ipnosi

Dopo un mese la Dottoressa ha affermato che, quando trattavamo il tema della sessualità, mostravo difficoltà ad aprirmi. Per esempio lei mi parlava dell'accetta- zione del corpo e mi poneva delle domande specifiche e intime: «Ma tu ti tocchi? Ti rimiri nuda allo specchio?». Io le spiegavo: «Guarda che non ho bisogno di toccarmi, e nemmeno di guardarmi nuda allo specchio». Allora insisteva: «No, è invece importante che tu conosca bene il tuo corpo, che tu senta le emozioni dei tuoi organi genitali».

Mi dava proprio degli esercizi da fare a casa e la volta successiva mi chiedeva se li avevo fatti o no. Per un periodo le ho detto che non ci riuscivo, così a un certo mi disse di farli davanti a lei. Così io mi denudavo ed eseguivo quello che mi diceva, accarezzandomi e guardandomi allo specchio con lei di fianco.

A pensarci oggi, mi sembra assurdo tutto ciò che sto raccontando, ma all'epoca sentivo soltanto il bisogno sempre maggiore della sua compagnia, della sua presenza, del suo consiglio. Aveva davvero un modo di fare che mi dava sicurezza. Ciò che mi comunicava era: «Se vuoi guarire dal dolore che hai, questa è la via». E io non facevo altro che agire in modo consequenziale, dando compimento a qualsiasi sua indicazione, per quanto assurda o aberrante fosse. D'altra parte lei si mostrava costantemente disponibile. Io avevo il divieto di telefonarle, ma lei mi chiamava abbastanza spesso da farmi sentire accolta e accettata.

Se, in quelle prime quattro sedute, allo scadere del cinquantesimo minuto si alzava e mi salutava, in seguito l'orario si dilatò sempre di più. E anche se arrivavo al lavoro in ritardo di un'ora, il principale non mi chiedeva nemmeno dov'ero stata. Probabilmente lei lo avvisava mentre stavo facendo il tragitto dallo studio al ristorante. Via via abbiamo anche cominciato a uscire insieme. Che ne sapevo, allora, che per uno psicanalista non è deontologicamente corretto mantenere un legame al di fuori della seduta?

Dal punto di vista fisico, la Dottoressa non era bella di volto. Quello che mi colpiva era la sua intelligenza e la sua calma. Mi piaceva quando riusciva a capire ciò che io pensavo senza che glielo dicessi. Mi piaceva la dimensione di mistero che aveva creato intorno a lei. Lei sapeva tutto di me e anche a me sarebbe piaciuto sapere tutto di lei. Però vigeva la regola che non avrei

mai dovuto farle domande sulla sua vita privata. In più non dovevo parlare con nessuno di lei e della terapia che stavamo facendo. Tutto questo pian pi- ano mi fece allontanare da ogni altra amicizia. Anche la persona che mi aveva dato il telefono della Dottoressa non l'ho mai più vista né sentita, e ancora adesso non riesco a ricordarne il cognome, come se avessi rimosso ogni cosa.

Nell'autunno del 1994 eravamo arrivati a tre sedute; ogni settimana, il lunedì, il mercoledì e il venerdì. E nel frattempo aveva anche cominciato a sottopormi all'ipnosi, con la motivazione che questa poteva essere la soluzione per le mie difficoltà di andare a fondo nell'inconscio. Agli inizi ho trovato fastidiosa questa ipnosi, perché io desidero avere sempre il controllo della situazione. Lì invece a un certo punto mi risvegliavo e mi sentivo chiedere: «Come stai?». Così mi rendevo conto che era già finito il tempo. E quando le domandavo: «Com'è andata?» lei rispondeva soltanto: «Molto bene». Questo era tutto.

La seconda volta infatti ho obiettato, dicendole che non mi piaceva così. E lei di rimando: «Non devi preoccuparti, è soltanto uno strumento. Vedi, io prende appunti sulle cose che dici. Mi serve per rifletterci sopra anche quando tu non sei qui. Sto lavorando con tuo inconscio, quindi tu non ti preoccupare, fidati». Talvolta mi accorgevo che nell'ipnosi riusciva a tirare fuori ricordi dei quali non avevo consapevolezza. Capitava per esempio che da sveglia mi facesse una domanda cui non sapevo rispondere. Allora iniziava a lavorare nuovamente con l'ipnosi. In pratica siamo arrivati al punto che praticamente tre quarti delle sedute erano sotto ipnosi, mentre il colloquio era riservato soltanto agli ultimi minuti.

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