MICHELA
La mia lotta per scappare dall'Inferno
L'alibi dell'adozione
A dodici anni ci fu l'episodio che rappresentò una specie di spartiacque della mia adolescenza. Un giorno la mia insegnante di matematica disse a una mia cugina che avrebbe voluto parlare con mia madre. Mia cugina lo riferì a mia mamma e scoppiò un caso. Per tutto il pomeriggio, come in un incubo, i miei genitori continuavano a ossessionarmi: «Che cosa hai combinato?». Io non sapevo che cosa rispondere, perché la matematica mi piaceva e nelle interrogazioni ero sempre andata bene.
Finalmente la mattina seguente mia madre andò dalla professoressa, la quale le spiegò che c'era un problema: io intervenivo troppo spesso dando la soluzione durante i compiti in classe e non lasciavo ai miei compagni il tempo di risolvere i problemi e le equazioni. La risposta di mia madre fu molto semplice: «Signora professoressa, è da capire: è figlia adottiva!». Al che l'insegnante le chiese scusa, dicendo che non lo sapeva. Stupida lei, che poteva risolvere la questione direttamente con me invitandomi a lasciare spazio ai miei compagni, e stupidi i miei genitori, che al rientro a casa mi sottoposero a un logorante interrogatorio per scoprire quali problemi avvertissi nella mia condizione di figlia adottiva.
Quella sera ho capito che da allora in poi avrei avuto una scusa per tutto: fumavo gli spinelli, marinavo la scuola, ne combinavo di tutti i colori? Ogni volta la spiegazione era: «Sono figlia adottiva!». Una volta ho sottratto la macchina a mio padre, senza nemmeno avere la patente, e siamo finiti in un campo di patate: «Sono figlia adottiva!». Quando ho capito che questa era la loro debolezza, ho giocato tutte le mie carte: «Ho una giustificazione inesauribile.
Nessuno mi potrà mai dire o fare niente!».
Alle superiori avrei desiderato frequentare l'istituto alberghiero. Mio padre invece mi impose di iscrivermi a ragioneria, perché secondo lui avrei dovuto fare il suo stesso lavoro nell'ambito dell'amministrazione. Non ero particolarmente contenta di studiare quelle materie e perciò non mi comportavo come la scuola avrebbe voluto: veramente sono stata causa di santificazione per
i miei professori! Ogni volta che mi dicevano qualcosa, la prendevo come una sfida personale, di fronte alla quale dovevo reagire.
Per esempio, un giorno in seconda superiore fui interrogata in stenografia. Io ero convinta della mia preparazione e mi aspettavo un bel voto, almeno un sette. La professoressa invece voleva limitarsi a darmi la sufficienza. Allora io inscenai un finto suicidio: mi buttai giù dalla finestra dell'aula, sotto la quale c'era però un terrazzino. La professoressa non lo sapeva e così le prese un infarto, tanto da dover essere ricoverata in ospedale. Fui sospesa per un mese e rimandata in tutte le materie: alla fine mi bocciarono.
Mentre stavo ripetendo il secondo anno, l'insegnante di italiano mi chiese il passato remoto del verbo leggere. Mi sembrò una presa in giro e allora le risposi intenzionalmente con una forma sbagliata. Lei mi mise due e all'uscita io ero molto arrabbiata. Un mio compagno mi diede una sigaretta: «Fumati questo».
Non era tabacco, ma il mio primo spinello: Libano rosso, una favola! Poi c'era la birretta e così ci creavamo un cocktail perfetto. Del resto sul muro della mia classe c'era una scritta che non lasciava dubbi: «Campa cavallo che l'erba cresce, e noi ce la fumiamo».
Avevo buttato giù un altro muro, come era stato per il sesso. Come tutti, mi dicevo che con la droga avrei potuto smettere quando avessi voluto. Lo spinello mi disinibiva nelle relazioni con gli altri e mi faceva dimenticare i problemi che vivevo a casa e a scuola. Il rapporto conflittuale con i miei genitori adottivi si era ormai incancrenito, anche perché loro non accettavano di porsi in discussione e attribuivano unicamente al trauma dell'adozione ogni mio comportamento deviante.
In terza superiore l'insegnante di francese mandò a chiamare mia madre perché non riusciva a capacitarsi di come io in francese scritto andassi molto bene e in orale avessi a stento la sufficienza. Il suo sospetto era che copiavo, mentre la verità era che all'orale "andavo in sfida" e la soddisfazione di risponderle non gliela davo. Mia madre, candida candida, le fornì la solita giustificazione della figlia adottiva che forse stava attraversando una crisi.
Dopo quel colloquio, la professoressa entrò in classe e davanti a tutti i miei compagni esclamò: «Ma me lo potevi dire che sei figlia adottiva...». In quel momento ho visto rosso come un toro, l'adrenalina mi è salita vertiginosamente e dal mio banco in fondo alla classe mi sono alzata, sono corsa a prenderla per il collo e l'ho sollevata in aria. Se non me l'avesse tolta dalle mani il ragazzo con cui stavo, probabilmente l'avrei strangolata. Il giorno dopo le ho fatto trovare l'auto - mi ricordo ancora che era una Al 12 - su una pila di mattoni, perché avevo smontato tutte le ruote. A metà anno si è messa in malattia e l'anno successivo ha cambiato classe.
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