23.2. Venerdì Santo
Dal 20 febbraio fino al 20 marzo 1815 il mio spirito si è impiegato in piangere i propri peccati. In questo tempo però si è degnato il Signore di favorire il mio povero spirito per ben tre volte, col sollevarlo ad una particolare unione. Particolarmente il giorno 9 marzo mi seguì un certo fatto, che io non so ridire, per essere cosa intellettuale; ma, per non mancare all’obbedienza, procurerò di spiegare alla meglio la cognizione che ebbe il mio intelletto.
Mi si mostrò Dio sotto la figura di forte guerriero armato, e con la sua spada vendicatrice era sul momento di vendicare i gravi torti che riceve dai suoi. E, ridendo ed esultando, m’invitava ad esultare con lui; ma la povera anima mia era sopraffatta da mestizia così profonda, che invece di esultare, piangeva amaramente; perché conosceva chiaramente quale strage sarebbe Dio per fare con la sua spada vendicatrice.
A questa cognizione tanto lacrimevole ed afflittiva, procuravo per quanto potevo di resistere a Dio, non con il fatto, né con le parole, ma mostrandogli il mio gran dispiacere e la mia grande pena. Il buon Dio tornava di bel nuovo ad invitarmi ad esultare con lui, non solo m’invitava ad esultare con lui, ma per mezzo di particolare illustrazione mi dava a conoscere quanto retto e giusto fosse il suo operare.
Io, a questa cognizione, piena di umiltà, confessavo questa gran verità, che Dio è giusto e retto in tutte le sue opere; ma il mio cuore ciò nonostante non poteva esultare, anzi per quanto potevo mi opponevo e facevo a Dio resistenza, nel tempo stesso che confessavo con ogni sincerità che la creatura non può né deve opporsi al suo Creatore. Ciò nonostante mostravo al mio buon Dio la grave mia pena. Gli dicevo, piena di santo affetto: «Ah, potessi con il sangue mio risparmiare al mondo il tremendo castigo, oh quanto volentieri lo spargerei! Mio Dio, ti muova a compassione la pena mia».
A questa preghiera tornava il buon Dio a persuadermi. In questo contrasto si è trattenuto il mio spirito dal giorno 9 di marzo 1815 fino al giorno 14 del suddetto mese, giorno di venerdì santo; nell’assistere alla devozione delle tre ore dell’agonia di nostro Signore Gesù Cristo, tanto si era internato lo spirito nella considerazione di questo doloroso mistero, che quattro ore continue stetti in ginocchioni, dimentica affatto di me, solo intenta a compassionare il mio Signore e piangere la mia ingratitudine, che fu la cagione di tanto scempio. Con abbondanti lacrime gli domandavo perdono, e, afflitta fino all’ultimo segno, desideravo morire in croce con lui.
Dopo aver passato circa tre ore in questa considerazione, tutto ad un tratto il Signore fece passare il mio spirito a cognizioni tutte opposte. Di nuovo mi diede a conoscere come la sua divina giustizia a mano armata vendicherà severamente i gravosi oltraggi che tuttora riceve dai suoi... Prendendo alta compiacenza nella sua sovrana giustizia, mi dava a conoscere come avrebbe trionfato, mostrandomi il crudo scempio che è per fare dei viventi. Che spavento, che terrore ebbe mai il mio spirito! Cosa più funesta non si dà! Raccomandiamoci caldamente al Signore, perché si degni mitigare il suo rigore.
Tornò di bel nuovo ad invitare la povera anima mia ad esultare con lui; ma il mio spirito, sentendo una viva compassione fraterna, non poteva prendere compiacenza nella giustizia, anzi procuravo quanto potevo di oppormi, come già dissi.
Il Signore cercava, per mezzo di interne illustrazioni di persuadermi, e per tenermi contenta, mi fece vedere come salverebbe tutte quelle anime che mi fanno del bene, e tutte quelle che sono a me in spirito unite, ponendo sopra queste un segno che le renderebbe sicure. Nonostante tutte queste finezze, io mi opponevo ai suoi voleri col mostrargli la mia pena. Questo contrasto apportava al mio spirito molta angustia e gravissima afflizione.
Beata Elisabetta Canori Mora
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